21 Lug 19 luglio: appunti in memoria
“Per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede” (P. Calamandrei).
Se ho scelto di operare nella giustizia, lo devo, con gratitudine, a proprio Calamadrei, ma soprattutto e prima di tutto a ciò che avvenne 31 anni orsono.
Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio segnarono profondamente la mia umanità di ragazza degli anni ’80.
Quelle immagini devastanti e raccapriccianti, tramesse in televisione mentre ero in procinto di iniziare il mio percorso universitario, sono rimaste scolpite nella mia mente; il dolore e il desiderio di Giustizia hanno stretto il mio cuore: le stragi hanno cambiato la mia vita, il corso degli eventi e hanno determinato anche il mio destino personale.
Guardando a Falcone e Borsellino, alla loro storia di uomini e magistrati, ho capito che il desiderio operante di bello e di giusto avrebbe per sempre segnato la mia esistenza; avrei operato nella Giustizia: si! Nell’apparato giustizia, per la Giustizia!
Da quel momento, mi sono convintamente decisa a studiare Giurisprudenza; volevo diventare magistrato… ma la vita, a suo modo, è grande maestra e mi ha costretto, grazie a Dio, a esercitare come avvocato civilista.
La ferita di quei giorni, però, rimane aperta ancora oggi nella mia vita e nella storia di tutti: delle vittime, dei superstiti e dell’intero Paese.
Dopo Capaci, la sera del 25/06/1992 Borsellino parla in pubblico per l’ultima volta nella biblioteca comunale di Palermo.
E sue parole sono un pugno allo stomaco, sono il suo testamento, perché, tre settimane dopo, in quella calda domenica del 19 luglio 1992, in occasione della solita visita alla madre, verrà ucciso insieme ad alcuni uomini della sua scorta.
Quella sera Borsellino parla con il cuore, a braccio, chiede scusa del ritardo e inizia: “Sono venuto soprattutto per ascoltare, perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti, ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro”.
Si sofferma a ripercorrere da uomo (ma da uomo di legge) le scelte del suo amico e collega Giovanni (Falcone), ne traccia la storia professionale dell’ultimo periodo, attestando la veridicità degli appunti, dei suoi appunti, pubblicati il giorno prima sul “Sole24Ore”, e chiosa “l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio”.
E così come era avvenuto per Giovanni, avvenne anche per lui, come lui stesso ebbe a dire quella sera: “lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”.
Borsellino, dopo la strage di Capaci, era più convinto che mai, come nessuno, che bisognava risalire all’inchiesta e al dossier mafia-appalti per scoprire gli assassini di Falcone; ma Borsellino non ce la fece, non riuscì a riaprire l’inchiesta.
La strage di via D’Amelio, dopo quella di Capaci, è stata accelerata nella sua tempistica proprio quando Mani Pulite a Milano era decollata.
Sta di fatto che l’indagine mafia-appalti, fortemente voluta da Giovanni Falcone, e poi ripresa da Borsellino, inchiesta che riguardava le connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, fu condotta, tra la fine degli anni ’80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.
Dall’indagine emerse, per la prima volta, l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia.
Mori e De Donno per i loro metodi di indagini sono stati, poi, incriminati e processati dalla procura di Palermo insieme ai loro i principali collaboratori, il colonnello Obinu (colui che negli Stati Uniti aveva convinto Badalamenti a venire in Italia a deporre a smentita di Buscetta nel processo Andreotti) e il capitano De Caprio (che aveva catturato Totò Riina nonostante che Vito Ciancimino fosse stato improvvisamente arrestato mentre si accingeva a fornire a Mori e a De Donno la pianta del covo del boss).
Successivamente, a partire dal 2012, Mori e De Donno, sono stati imputati in quello che è divenuto noto alle cronache come il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia.
Entrambi loro, Mori e De Donno, lo scorso aprile sono stati assolti definitivamente dalla Cassazione; la Suprema Corte li ha assolti “per non aver commesso il fatto”.
Il Palazzaccio ha confermato “la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di Cosa nostra cercarono di condizionare con minacce i governi Amato, Ciampi e Berlusconi, prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia e altre misure in favore dell’associazione criminosa”.
Sostanzialmente, sempre secondo l’ultimo grado di giudizio, ci fu un tentativo di condizionamento, ma questo fallì e, su tale presupposto (come a dire “per oltre un decennio abbiamo scherzato”), gli ermellini oltre ad aver assolto in via definitiva dal reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” politici ed ex vertici del Ros per “non aver commesso il fatto”, hanno dichiarato prescritti i mafiosi a causa della riqualificazione del reato nella forma “tentata”.
Quello che colpisce nell’esito giudiziale della trattativa Stato-Mafia, pronunciata con una sentenza “in nome del Popolo italiano”, è la cessione della sovranità nazionale a un’organizzazione criminale.
Di fronte alle stragi mafiose, che tra il ’92 e il ’93 hanno insanguinato la nostra amata Patria e che gli inquirenti non sono riusciti a fermare, gli alti funzionari dello Stato sono scesi a patti con i boss.
“Patti” condannati in primo grado, derubricati a iniziative a fin di bene in secondo grado, e dichiarati non reati nell’ultimo grado di giudizio.
Ma quei “patti” rimangono nella cronaca nazionale come pagine di disonore civile e, dopo l’ultima sentenza, rimane l’amarezza per uno Stato che, mentre celebra gli eroi dell’antimafia, non riesce a prendere le distanze dai suoi rappresentanti, che hanno usato l’ambiguità come pragmatismo tossico.
E anche in questi giorni, quelli in cui si celebrano gli eroi morti nella guerra contro la mafia, lo Stato continua a disquisire su come vadano giudicati i delitti di mafia.
Si discute ancora se il cosiddetto “concorso esterno in associazione mafiosa” sia o meno un reato.
Da operatrice della giustizia confido che il legislatore faccia chiarezza sul punto, ma almeno solo per oggi chiedo al giornalettismo e ai consessi di diritto di fermarsi a pensare, facendo memoria nel silenzio:
“Il senso della giustizia, per il quale, appresi i fatti, si sente subito da che parte è la ragione, è una virtù innata, che non ha niente a che vedere colla tecnica del diritto: come nella musica, in cui la più grande intelligenza non serve a supplire alla mancanza di orecchio.” (P. Calamandrei).
Melania Schirru
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